mercoledì 21 maggio 2008

Calcio:"Champions League, la coppa simbolo del calcio business"

posted on 06:38 by Ale77Ud

Per avere un'idea di cosa significhi la l'ex Coppa dei Campioni, e soprattutto cosa comporti il vincerla, basta guardare al Milan, che della manifestazione è la seconda squadra più titolata in assoluto (dopo il Real Madrid). Il club rossonero ha impostato nella scorsa stagione tutti i suoi sforzi (sul campo) sulla Champions League e strappandola al Liverpool si è costruito in un sol colpo il credito (economico) per vivere di rendita in questa. Che infatti l'ha visto ancora lontano dalla lotta per lo scudetto in Italia, sebbene in via Turati siano finite altre due coppe internazionali, la Supercoppa europea e il Mondiale per club. Ora, dovendo accontentarsi della Coppa Uefa e non potendosi giocare le chance di rientrare dalla porta principale nel torneo che (commercialmente) più conta il Milan deve ripartire "da zero". Investendo parecchie decine di milioni di euro senza sfruttare quelli (fra i 25 e i 30, incassi dello stadio esclusi) che la partecipazione alla Champions gli garantiscono da sei anni a questa parte. Come dire: partecipare e andare il più avanti possibile in Europa è di per sé sinonimo di maggiori ricavi, un volano che non ha eguali (e l'esempio di Real Madrid e Manchester United è davanti agli occhi di tutti) per sviluppare nuove opportunità di business alla voce sponsorizzazioni, merchandising, amichevoli stra-remunerate e via dicendo. Un toccasana, sportivo e finanziario, a cui una grande società oggi non può rinunciare (e la Juventus costretta a due anni senza Europa lo sa bene guardando agli oltre 70 milioni di euro che non ha potuto incassare) e non è un caso che anche nel calcio si parli da tempo di super potenze, quelle confluite nel G-14, il "consorzio" dei club più potenti e ricchi d'Europa. La finale di domani di Mosca, dove si sfidano Chelsea e Manchester United, come tutte o quasi quelle delle edizioni dal 2000 in poi, è una loro prerogativa.Che il calcio sia diventato un business, uno "show biz" per dirla all'inglese, non si può scoprirlo e stupirsene ogni qualvolta si parla e si scrive del trasferimento (o dell'ingaggio) ultramilionario di un giocatore. Chi per primo parla di "prodotto calcio" sono i dirigenti del pallone (e Adriano Galliani, vicepresidente vicario del Milan, ne è il massimo esponente) e non si può nascondersi dietro il fatto che intorno al calcio sia fiorita una vera e propria "industry" dell'intrattenimento. Pensiamo per esempio alle iniziative commerciali dei grandi nomi dell'elettronica di consumo o delle telecomunicazioni legati ai grandi appuntamenti calcistici, Coppa del Mondo e Champions League in testa. Il calcio, bene ricordarlo, ha cambiato faccia con l'avvento delle Tv a pagamento (in Italia nel lontano 1992) e ora sono loro, spalleggiate ad arte dall'Uefa o dalle Leghe nazionali, a comandare perchè fautrici (almeno nel caso delle big italiane) dei due terzi del fatturato stagionale dei club. Questi ultimi si "devono" quindi adeguare alle bizze di calendari fin troppo fitti in cambio di una pioggia di denaro che finisce nelle loro casse (poi speso in larga parte per coprire i costi del personale, cioè i divi della pedata). Partecipare alla Champions League è quindi una sorta di assegno circolare da spendere in modo oculato per la gestione del club; vincerla e mettersi in tasca una cinquantina di milioni di euro tutto compreso una specie di vincita alla lotteria che richiede però un presupposto fondamentale: per vincere non basta solo acquistare i numeri vincenti (leggi giocatori) ma lavorare nel rispetto di una precisa strategia (di mercato, di gioco, di risorse, di obiettivi). Così si portano a casa i trofei e si genera business, come deve fare una comune azienda impegnata sul mercato. L'Uefa distribuisce alle 32 partecipanti alla Champions League circa 500 milioni di euro e solo una parte dei ricavi ottenuti dalle vendite dei diritti televisivi in tutta Europa. Un circolo "virtuoso" che ha fatto schizzare verso l'altro i fatturati delle principali società calcistiche europee, tanto che nella stagione 2006/2007 i primi venti club hanno messo insieme un giro d'affari di 3,7 miliardi di euro, l'11% in più rispetto alla stagione precedente e circa il triplo della cifra registrata nel 1996 (1,2 miliardi di euro). Oggi c'è una differenza sostenuta fa il Real Madrid (che capeggia la classifica "Football Money League 2008" stilata dalla Deloitte) che ha fatturato lo scorso giugno 351 milioni di euro e la Roma che invece ne ha messi insieme meno della metà ma è indubbio che i soldi che grondano dall'ex Coppa dei Campioni fanno gola (e sono oltremodo vitali per la buona salute dei bilanci) a tutti. La differenza, poi, la fanno le politiche di gestione pro business degli stadi (e le società inglesi in questo sono veramente maestre) e la capacità di vendere al meglio il proprio marchio agli sponsor tecnici (Nike o Adidas) e a quelli commerciali (con uno spettro di settori rappresentati molto ampio) con contratti plurimilionari. Il derby tutto inglese Chelsea -Manchester United, che assegna la Champion League 2008, è vicino a essere la massima espressione di quello che è oggi il calcio business: sul campo si sfidano due squadre alle cui spalle vi sono due società che insieme fatturano l'equivalente di circa 600 milioni di euro. Il giro d'affari di una medio-grande impresa italiana.
di Gianni Rusconi.
ringrazziamo:"www.ilsole24ore.com"

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